Associated Press: “Il governo Usa ci ha spiato per due mesi”
Il governo americano ha spiato l’Asssociated Press. Mettendo segretamente sotto controllo i telefoni dell’agenzia per due mesi nel 2012. Obiettivo: ottenere le trascrizioni e gli elenchi di tutti i numeri contattati.
La denuncia arriva dalla Ap, una delle più importanti agenzie di stampa internazionali, che ha definito quanto accaduto una “intrusione massiccia e senza precedenti”. La Ap riferisce, attraverso una lettera del direttore Gary Pruitt, che il 10 maggio scorso il dipartimento di Giustizia avrebbe ammesso di aver intercettato, tra aprile e maggio 2012, circa 20 linee telefoniche: oltre cento redattori.
Ancora sconosciuto il motivo dello “spionaggio”, così come non è chiaro se i funzionari del dipartimento di giustizia abbiano ottenuto anche il contenuto e la durata delle telefonate. La certezza è che nelle mani del Governo ci sono tutti i numeri di telefono delle chiamate in arrivo e in partenza, sia dagli apparecchi dei singoli giornalisti, che dai centralini Ap delle sedi di New York e Washington, oltre all’ufficio di corrispondenza nella sala stampa della Camera dei deputati.
“Non c’è giustificazione possibile”, scrive Pruitt , “per una raccolta così vasta di comunicazioni telefoniche dell’Associated Press e dei suoi reporter. Queste informazioni potenzialmente rivelano le comunicazioni con le nostre fonti confidenziali, danno un tracciato della nostra raccolta di notizie, svelano dati sulla nostra attività che il governo non ha alcun diritto di sapere”.
Ancora nessuna reazione da parte del dipartimento di Giustizia, mentre la Casa Bianca fa sapere di non essere a conoscenza di alcun tentativo del dipartimento di avere i tabulati telefonici della Ap. Intanto il New York Times intravede dei legami con un’indagine già nota: si tratta di un’istruttoria aperta per scoprire la fonte di una notizia divulgata dall’Ap il 7 maggio 2012 su un attentato terroristico sventato. In quell’occasione l’Associated press rivelò dettagli su un’operazione della Cia nello Yemen, che fece fallire un complotto di Al Qaeda per far esplodere un aereo cargo diretto verso gli Stati Uniti.
Il direttore della Cia John Brennan era stato a suo tempo interrogato dall’Fbi, che gli aveva chiesto se fosse stato lui la fonte di quella notizia Ap. Brennan, oltre a negare, aveva definito quello scoop dell’Ap come una “pericolosa rivelazione di notizie coperte dal segreto di Stato”. Lo stesso New York Times ricorda come in passato ci furono magistrati che ottennero trascrizioni delle telefonate di giornalisti, ma mai su una scala così vasta come nel caso dell’Ap.
Tutti contro Jill. La direttrice del NYT nel mirino della redazione
Sotto la sua direzione, lo storico quotidiano newyorchese ha vinto ben quattro premi Pulitzer. Eppure tutti ce l’hanno con lei, negli uffici del grattacielo progettato da Renzo Piano, all’incrocio tra la 8th Avenue e la 24th Strada di Manhattan. Jill Abramson, 59 anni, dal 2011 prima donna alla guida del New York Times, si sarebbe già inimicata l’intera redazione.
Secondo un articolo pubblicato da Politico, sarebbero diversi “gli incidenti”, che da tempo, fanno discutere le redazioni del prestigioso quotidiano statunitense. A partire da una discussione, qualche settimana fa, con il caporedattore centrale, Dean Baquet, finita a suon di offese, urla e pugni sui muri. La redazione si sarebbe schierata tutta a favore di Baquet, cogliendo l’occasione per imputare alla Abramson la responsabilità del caos che ormai regna sovrano al giornale. Redattori e capi desk sono d’accordo: “Jill è incredibilmente impopolare, distante e insensibile”, “il Times è senza leader adesso”, “non si può lavorare con una persona così cocciuta, arrogante e poco collaborativa”.
Tutto è iniziato a gennaio, quando in pieno clima di dolorosi prepensionamenti (che hanno costretto molti veterani a dire addio al giornale), lei era a Cuba per seguire un festival di cinema. Quando è tornata, la situazione è degenerata: un intervento per togliere una foto dalla hompage del web è sembrato troppo brusco, alcuni giudizi sul lavoro dei redattori l’hanno fatta apparire poco concentrata, fino ad arrivare alla goccia che ha fatto traboccare il vaso, la lite con Baquet.
Eppure in queste ore persino i primi concorrenti della “Grey Lady”, sono costretti ad ammettere che il talento della Abramson è senza pari nel panorama del giornalismo a stelle a strisce. Ultime prove: il record sfiorato con i quattro Pulitzer vinti la scorsa settimana e i servizi esclusivi sulla strage di Boston, ripresi da tutte le testate del mondo.
Una rivolta della direzione contro un direttore dispotico o un colpo basso da parte dei giornalisti maschi, suoi sottoposti, che non hanno mai accettato l’idea di una capo donna?
Washington Post, l’estate del paywall
Un altro grande quotidiano statunitense sceglie la via del web a pagamento: da questa estate i lettori del Washington Post dovranno sottoscrivere un abbonamento se superano la consultazione di 20 articoli o contenuti multimediali al mese. I costi dell’abbonamento dovrebbero essere compresi tra 7,95 e 24,95 dollari ogni trenta giorni.
L’operazione prevede tuttavia numerose esenzioni: gli abbonati al giornale stampato potranno accedere a tutti i servizi digitali e altrettanto potranno fare studenti, insegnanti, dirigenti scolastici, dipendenti pubblici e personale militare quando si collegano dalle scuole o dai luoghi di lavoro. Inoltre, dopo aver oltrepassato la soglia mensile, resteranno consultabili in modo gratuito l’home page, tutte le prime pagine delle sezioni e gli annunci. Gli abbonati che ricevono a casa le copie cartacee non dovranno pagare supplementi, mentre risulta in cantiere il lancio di una versione apposita per iPad.
L’iniziativa sembra di portata più modesta rispetto ai precedenti esperimenti portati avanti da altri prestigiosi concorrenti,come il Wall Street Journal, il Financial Times, il Boston Globe e il New York Times, ma rilancia allo stesso modo la questione non risolta del finanziamento dell’ informazione online strutturata e organizzata, come quella dei grandi quotidiani.
Il problema è sempre lo stesso: chiedere ai lettori un contributo per un lavoro di qualità e articolato fatto sulla carta come sulla Rete può avere un senso, ma resta il fatto che l’introduzione di forme di abbonamento o di pagamento per l’informazione online hanno generalmente allontanato i lettori, con conseguenze anche sulla raccolta pubblicitaria, linfa vitale per i siti web.
Katharine Weymouth, editore del quotidiano, ha spiegato che il pacchetto digitale del Post è un “valore”, e hanno “intenzione di chiedere ai lettori di pagare per esso, come hanno fatto per molti anni con l’edizione stampata”. Più prudente Donald E. Graham, presidente e amministratore delegato del The Washington Post Co., da sempre tra gli operatori del settore più preoccupati per i possibili effetti negativi di eventuali tariffe per i contenuti on-line: “Stiamo ovviamente valutando paywall di ogni tipo. Ma il motivo per il quale non abbiamo ancora individuato quello da adottare è che non ne abbiamo trovata una che aggiunga effettivamente profitti”.
A differenza del New York Times e del Wall Street Journal, il Post è sempre stato un business locale, che attirava pubblicità dai commercianti della zona desiderosi di raggiungere il pubblico dell’edizione stampata. Al contrario, il 90 per cento di audience online del Post risiederebbe al di fuori della zona di Washington.
Intanto, Marty Baron, capo redattore del Post, ha detto che ci sono state circa 20 posizioni aperte in redazione all’inizio dell’anno e che il personale sarà ridotto di “altri 10-15 entro la fine del l’anno”, cifra da cui sarebbero esclusi i nuovi assunti per i contenuti video sul web.
Manuale di sopravvivenza per giornali di carta
Quattro casi di successo. Arrivano dall’altra parte dell’oceano e mostrano che il digitale non è la (sola) via per uscire dalla crisi dell’editoria. Ma che anche la cara vecchia carta può introdurre soluzioni in grado di generare ricavi e sostenibilità. Ad una condizione: essere realmente disposti al cambiamento.
È quanto emerge da “Newspapers Turning Ideas Into Dollars: Four Revenue Success Stories”, una recente analisi pubblicata da The Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism. Sulla base dei dati forniti da 40 testate e interviste ai rispettivi dirigenti, lo studio dimostra come quattro giornali statunitensi, il The Deseret News, The Naples Daily News, The Santa Rosa Press Democrat e The Columbia Daily Herald, tutti locali e con tirature modeste, abbiano sconfitto la crisi sviluppando nuovi, a volte inediti, modelli di business. Le loro innovazioni, dalla ristrutturazione della forza vendita al rebranding del prodotto, fino alla consulenza web per commercianti locali, stanno generando nuove e significative entrate invertendo il trend a ribasso delle testate degli ultimi due anni.
Ecco le 6 mosse chiave alla base di questi nuovi modelli di business:
– Gestire il digitale e la carta separatamente. E’ il caso del The Deseret News. Secondo Clark Gilbert, CEO di Deseret News Publishing Co., la pubblicazione cartacea è il coccodrillo, la creatura preistorica che si ridurrà, ma può sopravvivere. Il business digitale è il mammifero, la nuova forma di vita progettata per dominare il futuro. Queste due strutture hanno bisogno di essere gestite separatamente. Così la società ha creato una redazione a parte, Deseret Digital Media, per catturare la crescita futura, ridotto la redazione del Deseret News e orientato di nuovo la “mission” editoriale del giornale.
– Mantenere lo sviluppo di prodotti editoriali di nicchia. Negli ultimi anni, The Columbia Daily Herald ha lanciato due riviste di successo (una sulla salute e l’altra di lifestyle per uomini) e pianifica di introdurre un prodotto immobiliare all’inizio di questo anno, mantenendo molti dei costi all’interno. Anche se può sembrare un’impresa ambiziosa per una piccola realtà editoriale con risorse modeste, è una mossa che può portare risultati più che positivi, hanno commentato i dirigenti.
– Decentrare il potere decisionale. The Naples Daily News ha optato per un decentramento della leadership in seguito ad una globale revisione dell’intera forza vendita dell’azienda e della sua filosofia operativa. Questa ristrutturazione ha comportato, in un primo momento, la sostituzione del vecchio modello di business basato sui territori di vendita, fondati su un criterio fisico-geografico, in favore di una divisione in ‘business units’ tematiche. Il passo successivo è stato collocare a capo di ogni unità un direttore della pubblicità, con l’obiettivo di snellire i processi decisionali, rompere le vecchie gerarchie di autorità e filtrare decisioni importanti dal basso. Un processo che, spiegano i dirigenti, richiede molta fiducia da parte dei quadri più alti dell’azienda nei confronti del loro team. Nel caso del Naples il prodotto editoriale venuto fuori da questo rinnovato processo è stato più apprezzato dai lettori e premiato con un rialzo delle vendite del quotidiano cartaceo.
– Creare un’agenzia digitale come area di business autonoma. Nell’ambito di un piano di rinnovamento e rilancio aziendale, The Santa Rosa Press Democrat ha sviluppato il Media Lab, agenzia digitale che offre una gamma completa di servizi di marketing online per i commercianti. Nel suo primo anno l’agenzia ha rappresentato circa il 25% delle entrate dell’area digitale del giornale e si prevede di aumentare i ricavi di circa il 60% nel 2013. La decisione chiave è stata quella di creare l’agenzia digitale Media Lab come un’entità separata, con un personale a parte.
– Ricostruire la filosofia editoriale intorno a quello che si sa fare meglio. Il Deseret News, che è di proprietà della chiesa mormone, ha preso la decisione cruciale di spostare la sua missione editoriale, originariamente di portata generale, verso la copertura di alcune precise aree tematiche come la fede e la famiglia. Non si tratta di aree su cui molti giornali potrebbero concentrarsi, ma Gilbert, il professore della Harvard Business che ha operato come consulente, ritiene che le risorse in diminuzione all’interno della redazione debbano essere assegnate ai punti di forza editoriali, dove la testata è in grado di offrire un valore aggiunto. “Bisogna differenziarsi -, dice – e investire in ciò in cui si può essere i migliori al mondo. Non scegliere nulla significa scegliere di essere mediocri”.
– Non rinunciare alla carta stampata. Al The Naples Daily News, dove il franchising per la stampa è relativamente sano, l’editore rilancia dicendo: “stiamo reinventando la stampa” e immagina un futuro in cui il prodotto stampato potrà essere personalizzato per il singolo consumatore. Per molti quotidiani, con i ricavi dalla carta stampata al tracollo, può sembrare un eccesso di ottimismo. Ma la lezione di Naples è che nelle comunità in cui le condizioni sono favorevoli, o è possibile crearle senza grandi investimenti, una scommessa sulla stampa può ancora pagare.
Queste storie si successo condividono più di una caratteristica comune, spiega Mark Jurkowitz, uno degli autori della ricerca. Eppure tutte hanno introdotto innovazioni diverse, su misura, a seconda delle esigenze del mercato di riferimento. Ciò che ha funzionato in una comunità vinicola della California presente sulla Rete potrebbe essere una scelta sbagliata in una destinazione turistica della Florida. La chiave per trovare una soluzione alla questione “sostenibilità”, suggeriscono questi dati, è la personalizzazione dei modelli di business: adattare l’innovazione alla comunità di riferimento.
Leggi anche su: #piazzadigitale, blog di Corriere.it
New York Times, più lettori che pubblicità
Il 2012 anno di svolta per il New York Times. Per la prima volta nella storia del gruppo i profitti derivanti dalle vendite online e del cartaceo superano quelli provenienti dalla pubblicità, consentendo alla società di tornare in utile dopo un 2011 disastroso.
Il gruppo editoriale statunitense, impegnato nella fase di passaggio dalla stampa al digitale, ha chiuso il suo quarto trimestre del 2012 triplicando i profitti a 176,9 milioni di dollari, 164 milioni dei quali provenienti dalla cessione della propria quota al sito web Indeed.com e alla vendita di About.com.
A sottolineare il contributo delle vendite è stato Mark Thompson, l’ex capo della Bbc divenuto presidente al Times lo scorso novembre. “Il 2012 ha mostrato sia le sfide che le opportunità che abbiamo davanti. C’è stata una continua crescita negli abbonamenti al digitale, cresciuta del 13% a 668mila, e anche un incremento delle entrate dalle copie cartacee”: ovvero, 954 milioni di dollari, mentre dalla pubblicità sono arrivati 898 milioni di dollari.
Negli ultimi tre mesi dell’anno anche gli abbonamenti online sono aumentati: ben il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nonostante questo il gruppo vuole continuare a tagliare alcuni costi. “È inevitabile e necessario, ma è anche essenziale posizionarci al meglio per l’innovazione e la crescita”, ha affermato Thompson. La raccolta pubblicitaria continua a presentare sfide, “ma nel 2012 abbiamo fatto significativi progressi nel posizionarci nell’evoluzione del panorama dei media: abbiamo ampliato la nostra base di sottoscrittori online, disinvestito gli asset no core, gestito in modo attento le spese e continuato a investire nelle attività digitali”
E sul digitale il New York Times vuole continuare a spingere per crescere. “Continueremo nel tradizionale giornalismo di eccellenza ma stiamo valutando altre opportunità per sfruttare il marchio Times e creare nuovi prodotti e servizi. Le aree su cui puntiamo sono l’espansione del nostro portafoglio di prodotti digitali, sviluppare in modo più strategico le nostre capacità video e ampliare le attività di conferenze e incontri”. “Il tutto senza dimenticare la carta stampata. Anche se i nostri sforzi più recenti hanno riguardato la trasformazione digitale, stiamo investendo nei nostri prodotti di carta stampata”, ha sottolineato l’amministratore delegato.
TimeSpace, l’incubatore di startup per il giornalismo
Chi ha un’idea o un progetto in via di sviluppo nell’ambito dei media ha la possibilità di trascorrere quattro mesi a Manhattan, nella sede del New York Times e lavorare a stretto contatto con chi si occupa di digitale all’interno del giornale.
E’ quanto annunciato pochi giorni fa dal prestigioso quotidiano statunitense, che ha dato il via a TimeSpace, incubatore per startup nel mondo dei media e della multimedialità, con l’idea di raccogliere input e buone idee per risollevare le sorti di un settore in profonda crisi come quello dell’editoria periodica e del giornalismo.
“Il New York Times, ed i media in generale, sono nel bel mezzo di cambiamenti senza precedenti”, si legge sul sito del progetto, “il nostro obiettivo centrale rimane quello di migliorare la società, creando, raccogliendo e distribuendo notizie di alta qualità e di informazione. Vogliamo spingere noi stessi e spingere gli altri a trovare il modo migliore per farlo, e siamo convinti che TimeSpace può essere una parte di questo processo”.
Il quotidiano precisa che non cercherà alcun guadagno dalle imprese che deciderà di “incubare”: gli startupper potranno beneficiare gratuitamente dell’esperienza maturata all’interno di quella che la direttrice, Jill Abramson, creda sia la “miglior redazione digitale del pianeta”. Dall’altro lato, il giornale potrebbe raccogliere idee fresche e innovative e trovarsi, all’improvviso, un’ottima idea di business già confezionata e pronta per l’uso. Una sorta di crowdsourcing che, per la prima volta, apporterebbe benefici non solo ad una parte, l’impresa, ma si tramuterebbe in un meccanismo di finanziamento bottom up, dal basso.
In quello che è stato definito l’annus horribils per il giornalismo internazionale, gli editori di tutto il globo sono alla disperata ricerca della “formula magica” capace di rendere il giornalismo sostenibile anche in futuro. Un business model vero per l’informazione tradizionale nell’era digitale deve, con tutta probabilità, essere ancora inventato. Che l’unica soluzione ai problemi del giornalismo siano i paywall (abbonamenti digitali per la fruizione dei siti Internet dei giornali) e l’informazione in mobilità è ancora tutto da vedere. Il New York Times imbocca una strada alternativa e apre le porte ai giovani conoscitori della Rete e dei social media, che sanno bene come destreggiarsi nell’ambiente digitale, ambiguo ed imprevedibile. E perché no, magari sarà proprio della vecchia Signora in Grigio l’idea che finanzierà il futuro del giornalismo.
Leggi anche su: #piazzadigitale
L’ambiente costa troppo
Il New York Times chiuderà la sezione “Environment”, a causa della crisi economica e per una obbligata riorganizzazione della testata. I sette giornalisti e i due editor non saranno licenziati ma verranno assegnati ad altre redazioni del quotidiano, come ha spiegato il direttore editoriale Dean Baquet:
“Non è stata una decisione presa alla leggera: per me e Jill ( Abramson, direttore esecutivo del Nyt, ndr) la copertura del settore ambientale è ciò che contraddistingue il New York Times dagli altri giornali. Dedichiamo molte risorse a questo settore, ora più che mai: non abbiamo perso interesse per i temi del clima e dell’ecologia. E’ puramente una questione strutturale del giornale, non abbiamo perso il desiderio di coprire questo settore editoriale”
Nel 2009, quando è stato creato il desk “Ambiente” nella redazione, la materia era considerata “singola ed isolata” mentre oggi, ha spiegato Baquet, la cronaca ambientale:
“si interseca con l’economia, il commercio, in ambito nazionale e locale. Sono tematiche più complesse: Serve l’apporto di gente di altri desk per dare fiato alla storia nel suo complesso”
Baquet ha dichiarato che incontrerà ognuno dei giornalisti ambientali del NYT per decidere insieme nuova qualifica e settore, ma non si conoscono ancora le decisioni in merito a Green Blogs, il blog che copre quotidianamente le notizie su energia ed ambiente.
Di tutt’altra posizione il direttore esecutivo della Society of Environmental Journalists Beth Parke, che definisce “preoccupante” la decisione del quotidiano di New York:
“i team dedicati portano forza e consistenza alla copertura di questioni legate all’ambiente: per questo è sempre una perdita enorme vederne lo smantellamento”.